DAL DIARIO DI DON MINZONI

 

Trovarsi davanti soldati che piangono e urlano mentre il plotone di esecuzione è già schierato e pronto a fare fuoco non era un "lavoro" insegnato in Seminario

 

Testimonianza di don Giovanni Minzoni di Ravenna

 

“22 agosto 1917… Alle 23 il Reggimento partiva, io ero già pronto per andarmene quando per mordine del generale dovevo rimanere per aiutare un soldato, certo Francesco Rocco del 118 fanteria calabrese, che alla mattinata seguente doveva essere giustiziato nei pressi di S. Canziano.

Era la prima volta che dovevo assistere a simile fatto. Mi feci animo e col Capitano Medico del 256 andai alla cella del condannato. Era in una stanza a pian terreno legato fortemente ai piedi, seminudo e sdraiato.

L'ufficiale del tribunale standogli lontano non so per quale timore gli diede la triste notizia, poi si ritirò, ora spettava a me compiere il pietoso uffizio di sorreggerlo moralmente. Me lo avevano descritto come un essere triste e pericoloso. Mi feci animo, feci uscire tutti e rimasi solo al suo fianco.

Ci guardammo muti, fu come uno studio sommario che uno fece dell'altro: ruppi il silenzio non so con quali parole. Egli si mise a sedere e cominciammo la conversazione, prima fredda poi sempre più intima. Dovevo disporlo al perdono, alla rassegnazione, al pentimento presso Iddio.

Era innocente? Egli forse voleva dimostrarmelo, io credetti bene di evitare l'argomento per non eccitare nel suo cuore sentimenti d'odio verso le persone. Gli rammentai la famiglia: aveva il padre vecchio, moglie e tre piccole creature: Maria Anna la maggiore di anni 6, Rocco e Pasquale: ebbi una stretta al cuore. Forse stordito o che, non pianse a questo ricordo, però mi parlò a lungo specie delle tre piccole creature.

Estrasse da una tasca alcuni santi che erano ricordi famigliari. In uno vi era uno sgorbio di scritto: potei leggere: Ricordo della tua Anna, era un santo della sua piccina! Me li feci donare come memoria e di buon grado lo fece.

Così entrati nell'intimità lo persuasi a confessarsi: gli feci fare una confessione generale, facemmo la penitenza assieme: io ero commosso e alla fine contento di aver fatto scendere la grazia in quel cuore lo baciai con affetto.

Erano le 2 del mattino, mancavano ancora 3 ore al momento fatale. Lo consigliai a scrivere ai suoi cari. Gli feci dare carta e lapis, io tenevo la candela ed egli con vero disagio e dolore per i ferri che aveva ai piedi scrisse due lunghe lettere: una al padre ed una alla moglie.

Me le consegnò aperte perché leggessi: ricordava tutti, chiedeva perdono, benediceva a tutti e anche alle generazioni dei figli dei figli e rammentava ad ogni riga le sue creature. Cosa strana in tutta la notte non versò una lacrima. Pensandolo debole gli feci dare alcuni biscotti e del marsala: non lo voleva credendolo veleno – bevvi prima io e quando vide che avevo inghiottito allora si persuase.

Giunse finalmente l'ora; l'aspettativa era una vera agonia per tutti. Io partii col Capitano Medico e l'Uff. Giudiziario; egli venne in autocarro coi carabinieri. Spuntava il giorno quando giungemmo sul luogo. Vi erano molti picchetti. Si comandò a formare il quadro. Il condannato fu preso da un eccesso: ebbe anche vomito.

Eravamo tutti nervosi perché le cose andavano per le lunghe. Fu fatto scendere dal camion: non era più lui. Era diventato uno straccio, esausto, terreno, incosciente. Lo trascinarono perché non si reggeva: quanto soffrii a stare al suo fianco.

Fu bendato, giungemmo ove tutto era disposto. Tre picchetti di differenti Brigate a forma di ferro di cavallo al centro una squadra per il fuoco, là in fondo un terrapieno di poligono ove fu posto il disgraziato. Non stava neppure a sedere, rimase mentre si leggeva il reato e la sentenza sdraiato.

Vi era un silenzio di tomba, in tutti gravava un incubo che dava il sudore. Nella sentenza di diceva che condannato per vari reati, ultimamente scaduta la licenza si era dato latitante e inseguito dai carabinieri si era loro ribellato sparando. Letto ciò con gesti si dispose per lo sparo. Il condannato che aveva dato qualche lamento fu posto in un rialzo e ad un tratto si vide il gesto del sottotenente.

Tutti ci voltammo per non vedere: i soldati di servizio chiusero gli occhi… udimmo la scarica; che non parvemi simultanea, forse causata dal tremito dei giustizieri. Io guardai in quell'istante e vidi il corpo colpito essere spinto in avanti. Accorse il medico: si moveva ancora.

Si ordinò una nuova scarica. I soldati che avevano sparato sembravano spossati. Molti si asciugavano il sudore. Si dovette procedere alla constatazione della morte, quindi spogliarlo così insanguinato e descrivere le parti colpite. Io gli diedi l'assoluzione e feci le esequie, fu ricoperto e dopo steso l'atto di morte ce ne ritornammo a Pieris per proseguire per Villa Cordis ove era giunto il Reggimento. Il giorno era già alto e quando interrogato narrai le mie impressioni parlando della piccola Maria Anna che aveva mandato a babbo un santo ebbi un nodo alla gola e non potei più parlare. Non mi auguro più di assistere scene simili.

Accettai di prestare ogni conforto e di predisporre l'animo di 100 giustiziati, ma non di presenziare la fucilazione questo è troppo impressionante e violento...”

Don Giovanni Minzoni

 

( fonte )

IL SOLDATO DIMENTICATO.

La storia di Giovanni Battista Faraldi

(Leucotea Edizioni Sanremo)