IMMAGINE TRATTA DA GOOGLE MAPS
Terminato di leggere il bollettino il Maresciallo ordinò al vice brigadiere Francesco Ferranti e a tre carabinieri di scendere al porto per attingere maggiori informazioni su quanto fosse accaduto quella mattina. Giunta al porto, la pattuglia si attivò subito per rintracciare tra la popolazione un interprete. Poco dopo fu individuato il signor Pietro, di professione antiquario, il quale era stato negli Stati Uniti d 'America anni prima e parlava perfettamente l 'inglese. Nel frattempo i prigionieri, in evidente stato di disidratazione, furono condotti presso l'unica locanda dell 'isola. Intanto, all 'esterno del locale, la folla curiosa, formata già al momento dello sbarco dei naufraghi, diventò sempre più consistente.
Tutti volevano vedere gli americani. Molti avvicinarli. Tanti altri addirittura parlargli. Ci riuscì la signora Elisa, la quale, tra l 'incredulità dei presenti e una spensierata ingenuità chiese agli aviatori notizie del figlio emigrato in America. Uno dei soldati, forse un Ufficiale, che parlava un po ' d 'italiano, rispose che nel luogo degli Stati Uniti dove abitava il figlio: “Si viveva bene ”. Tra lo stupore degli stessi americani riuscirono ad avvicinarsi e a porre le più svariate domande almeno altre cinque persone.
Ma perché tanta curiosità, perfino amicizia?
Forse perché molti locali avevano figli o parenti oltreoceano, emigrati anni prima. I racconti che provenivano da quella terra racchiudevano sogni sempre rincorsi. Speranze mai sopite. Nei naufraghi, gli abitanti locali vedevano i loro affetti lontani. Quest'ammirazione verso delle truppe "nemiche" che stava avvenendo al Giglio era già accaduta in Sicilia e in Calabria. Dopo lo sbarco di Salerno e di Anzio e in ogni luogo dove erano arrivati gli alleati.
Ciò rappresenta la testimonianza diretta di quanto gli italiani non sentissero loro una guerra intrapresa al fianco di una milizia, quella tedesca, che perseguiva fini contrari all'uguaglianza, alla libertà e alla democrazia. Frattanto, ritornando alla nostra storia, tra un sorso di vino e un boccone di cibo si era creato un clima familiare tra gli abitanti locali e gli americani rotto dalle parole dell'interprete Pietro. Quest'ultimo riferì agli aviatori che al termine della cena sarebbero stati condotti a Giglio Castello e trattenuti quali prigionieri di guerra.
A sentir quelle parole gli aviatori espressero il desiderio di poter raggiungere la Corsica. L'interprete rispose che la richiesta “poteva essere esaudita solo dai carabinieri qualora se ne fossero assunti la gravissima responsabilità”. I prigionieri allora estrassero da alcuni involucri impermeabili delle cartine topografiche. Le stesero su di un tavolo dimostrando all'interprete e al Vicebrigadiere Ferranti, quanto plausibile fosse la possibilità di raggiungere la Corsica o la Sardegna. A sentir quelle parole un sussulto colpì l'animo del vice brigadiere Ferranti. Questi memore del giuramento prestato al Re e agli italiani, mal sopportava l'idea di servire sotto il dominio tedesco. Colse, dunque, al volo l'occasione e si appartò con il prigioniero che parlava l'italiano. Dopo il colloquio con l'aviatore, il Ferranti, euforico, prelevò gli aviatori e si diresse d'impeto verso Giglio Castello per raggiungere la sede della stazione carabinieri.
Giunto in caserma consegnò i prigionieri al maresciallo Luchini che li riunì in una sala piantonata da due carabinieri. Contemporaneamente, all'esterno della stazione, una folla di circa quaranta persone si era radunata per testimoniare solidarietà verso i naufraghi. A questo punto il Ferranti chiese al suo superiore diretto di conferire in privato. Entrarono entrambi nell'ufficio del Comandante e il Vice Brigadiere riferì la volontà dei prigionieri di voler raggiungere la costa sarda o quella della Corsica.
Alle parole del Ferranti una luce si accese negli occhi del maresciallo Luchini. Anch'egli mal sopportava l'umiliazione di servire la Patria sotto il dominio tedesco. D'un tratto un brivido freddo gli attraversò la schiena. Egli ripensò alle parole di “Javer” che aveva letto quel pomeriggio. Quale delitto commettere, quello di consegnare ai tedeschi coloro che nei territori già liberati erano i nuovi alleati o quello di lasciar andare dei soldati che inevitabilmente dovevano essere considerati prigionieri di guerra?
Da che parte stare? Qual era la scelta giusta?
E se, anziché commettere un delitto, la scelta giusta fosse quella di realizzare un'impresa eroica?
Quanti dubbi, quante ipotesi e scenari controversi si prospettarono in quell'istante al Comandante di stazione.
La scelta era già stata fatta tra la fine di luglio e i primi di settembre del 1943. Con il passaggio del Re da Roma ai territori liberati, l'Italia sceglieva di stare dalla parte degli alleati. Era quello il segnale che tutti avrebbero dovuto comprendere. Anche coloro che continuavano a vivere, lavorare, soffrire nei territori occupati dai tedeschi. Un Militare così ligio al dovere, così solerte nell'eseguire gli ordini dei superiori, qual era il Luchini, non poteva non recepire.
Così il Maresciallo iniziò a prendere in seria considerazione l'ipotesi di far raggiungere le coste sarde ai soldati alleati. Lasciare andare, però, solo gli aviatori americani non avrebbe avuto senso. Come giustificare tale comportamento? Occorreva pianificare qualcosa di più sofisticato: far raggiungere la costa liberata anche ai cittadini locali che sapevano ben navigare e ai carabinieri muniti di tutte le armi e le munizioni del disciolto presidio militare del Giglio.
Per completare l'opera, occorreva sottrarre ai tedeschi un'imbarcazione adatta alla navigazione in tutto il Mar Tirreno per porla a disposizione delle truppe italiane che andavano riorganizzandosi al fianco degli alleati. Serviva però un piano infallibile. Per prima cosa tutto doveva apparire normale. Così gli aviatori furono trasferiti nella cella di sicurezza come se fossero prigionieri di guerra a tutti gli effetti e piantonati sempre dai due carabinieri armati di moschetto. Allo stesso tempo il Luchini iniziò a predisporre gli atti per la traduzione dei prigionieri a Orbetello. Il giorno seguente si recò presso il Segretario Comunale dell'isola, ragionier Giacomo, interessato della vicenda dal Brigadiere della Finanza e delegato di Spiaggia, per ricevere eventuali disposizioni in merito alla traduzione.
Il Segretario Comunale lasciò intendere al Maresciallo che non avrebbe avuto nulla daridire su ipotesi di viaggio diverse dalla destinazione obbligatoria. Ottenuto l'ulteriore beneplacito, il Maresciallo e il Vice Brigadiere iniziarono in segreto a vagliare anche i particolari più banali della fuga.
Come raggiungere la Sardegna? Con quale mezzo?
L'unica barca disponibile era la “Santa Teresa” comandata dal locale Raffaele. Il natante era giunto la sera prima da Giannutri. Da quest'isola aveva trasportato il comandante interinale appuntato Egidio Curti e i carabinieri Lelio Giampaoli e Cosimo Fasano. In più, tutte le armi e gli oggetti di casermaggio del posto fisso dell'Arma soppresso il precedente 12 ottobre. Il peschereccio utile e affidabile per il trasporto di uomini e materiali per un breve tragitto non era adatto per una traversata lunga e impegnativa come quella prevista per raggiungere le coste sarde. Occorreva reperire un'imbarcazione duttile e capiente in grado di trasportare uomini, armi e mezzi per tutto il Tirreno e neutralizzare il ”Santa Teresa”. Al Comandante Raffaele fu fatto sapere che da quel momento avrebbe dovuto rispondere a chiunque si fosse avvicinato che: “la barca non era in grado di navigare per alcune avarie allo scafo”.
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