( Benevento)
IL SUONO DEI CARATTERI
Il tempo sembra dare via tutto, ma la mente scava nei frammenti di memoria e ne svela i ricordi.
Controvento e a passo veloce, quella mattina, con mio padre attraversavo il ponticello in pietra sul fiume. Con una velata tristezza negli occhi osservavo gli alberi sulla sponda inchinarsi alle forti raffiche di vento, come attori sul palco alla fine di uno spettacolo.
La presenza di mio padre diventava sempre più discreta e distante mentre sentivo allentare la sua presa nella mia mano: era la giusta ricompensa per un compito che avrei dovuto assolvere da sola.
Assorta in un silenzioso tumulto di pensieri, mi voltai verso di lui per un ultimo sguardo e mi avviai verso un piccolo cortile dal quale si stagliava in controluce la sagoma di una modesta casa in mattoni. Ero ormai decisa a fronteggiare un massiccio portone verde quando mi accorsi che qualcuno aveva già pensato ad aprirlo lentamente dall'interno.
Oggi, come allora, è nitida ancora l'immagine della donna che mi invitò ad entrare; aveva un aspetto esile e vestiva in maniera semplice, con i capelli grigi raccolti in un morbido crocchio. Il viso piccolo e segnato da rughe era sorridente e sereno. Si ravvedeva in lei una bellezza nascosta, anche quando, a scuola, leggeva racconti difficili e tortuosi dalla nostra antologia.
Aveva sempre un libro aperto tra le mani durante le lezioni, e trasmetteva l'arte di inventare storie e di fantasticare. Era di mente calma e destava allegria persino quando ci incoraggiava a descrivere brani o poesie nei dettagli e nella maniera più chiara e completa. Una forza sottile si nascondeva nelle sue parole e il tempo, allora, diventava irrilevante ma prezioso per tutte noi, sue alunne.
Mi ritrovai nel suo studio, davanti ad una imponente libreria; la stanza, luminosa e ampia, era ricca di mobili e di oggetti da arredamento. Dopo un breve silenzio cercò le parole giuste per spiegarmi la sua prossima e definitiva assenza dalla scuola, mentre il mio sguardo si spostava rapido da un angolo all'altro della stanza, nel tentativo di respingere le lacrime negli occhi.
Intuivo che sarebbe stato il nostro ultimo incontro e, ad appena sei anni, avvertii sbriciolarsi già qualcosa dentro. Dunque non sarebbe successo più nulla, pensai. Solo un sogno con un risveglio amaro.
Una improvvisa commozione si unì alla tristezza: aveva dato la sua anima per essere una autentica maestra; persino i muri della scuola avevano memoria della sua caparbia convinzione del valore di quel "bagaglio di sapere personale e sempreverde, che si arricchisce giorno per giorno con i libri, con le esperienze di vita, con le idee e con la cultura". Era la sua frase ricorrente.
Ma in quel momento un inevitabile senso di tradimento da parte sua aleggiava nel mio cuore, anche se non avrei mai profanato il nostro incontro ostentando risentimento nei suoi riguardi.
Ripercorsi con gli occhi tutti i mobili e gli oggetti dello studio mentre lei parlava; con debito riguardo e con la dolcezza di sempre mi raccontava dei suoi giorni trascorsi tra passeggiate e libri. Non c'era mai nulla di triste in ciò che narrava, nessuna durezza; solo pacatezza e musicalità nel tono.
E proprio allora accadde. Sul tavolo un oggetto nero, lucido, attirò improvvisamente la mia attenzione. Il respiro sembrò mancare per un istante, e rimasi completamente affascinata da quella strana e nuova presenza. Tutti gli altri oggetti persero qualsiasi loro significato e, rapita da quello strumento così perfetto, mi avvicinai al tavolo, stringendo forte le mani per evitare la tentazione di sfiorarlo.
Una vera meraviglia trattenuta!
Era la prima volta che vedevo un oggetto simile e non avevo alcuna idea di quale fosse lo scopo per cui era stato creato. Sbagliavo, forse, nel definirlo uno strano, piccolo pianoforte, oppure una radio speciale.
Lei carpì la mia irrequieta curiosità e mi offrì la sedia proprio di fronte a quello scatolone nero. Seduta, avrei potuto studiarlo meglio e, semmai, anche provarlo. Aspettai un po'. Magari sarebbe successo qualcosa.
Con molta trepidante lentezza, feci scorrere la mano su piccoli tasti tondi in cui, con profonda sorpresa, riconobbi le lettere dell'alfabeto. E di lato scoprii i segni di punteggiatura e tanti altri simboli a me sconosciuti.
Un po' più su, un rullo accoglieva un foglio di carta bianca e poi ancora numerosi martelletti di ferro così minuscoli da fare tenerezza.
Chiesi una penna.
Quel foglio appoggiato al rullo mi invitava ad attivarmi in qualche modo, e intuii che era un nuovo modo di scrivere.
"E' una macchina per scrivere - mi aiutò la maestra - e la penna non è necessaria".
Con tono estremamente calmo mi trasmise brevi suggerimenti utili al suo funzionamento. Quindi mi prese dolcemente la mano e la guidò verso la tastiera; isolò tra le sue dita il mio piccolo indice avvicinandolo ad un tasto il quale, ad una lieve pressione del mio dito, mise in azione il martelletto di un carattere.
E all'improvviso nella stanza risuonò un deciso suono metallico che mi fece leggermente trasalire.
Una magia si era realizzata sul foglio bianco. Ora era scavato dall'inchiostro di una piccola lettera. Era così che funzionava! "Scrivi quello che vuoi" disse. Mi sentivo talmente libera e così bene come non mi accadeva da tempo.
Dapprima con molta esitazione guidai il mio indice sui tasti che sceglievo per formare le parole. Nello studio sentivo il suono ritmato e lento delle lettere battute; poi, a mano a mano, il gesto acquistò sicurezza e il ritmo diventò più vivace e più sicuro.
I pensieri mi arrivavano in volo, come a farmi un nido dentro, e i movimenti delle dita, ora più calmi e più regolari, li trasmettevano alla tastiera. Scrivevo e continuavo a scrivere, come un gioco senza tempo.
Difficile stabilire quanto rimasi seduta lì, affascinata da quel nuovo oggetto. Mi accorsi solo che il foglio non riusciva più a contenere le mie parole, come gli argini di un fiume in piena. Non aveva più spazio e solo uno stretto margine in basso cercava di mantenere il suo biancore iniziale.
Capii e feci risuonare il tasto del punto mentre mi alzavo senza dire nulla. Le parole che mi ero preparata prima di entrare in quella casa non avevano più alcun significato in quel momento, e quando la macchina da scrivere smise i suoi suoni, persino il silenzio seppe di inchiostro.
Mi ero accostata inquieta e timorosa alla sua casa quella mattina.
Ora qualcosa di diverso era successo in maniera inequivocabile: era come se quel semplice battito che disegnava lettere e parole avesse aperto nuovi spazi. Come se la scrittura si muovesse spinta dal ritmo di un cuore metallico.
La salutai con animo diverso, come se nelle mani fluisse un muto arco elettrico.
Nuovamente sentii il vento tra le dita e guardai a terra. Avrei voluto scegliere una a una le parole tra i sassolini.
Al momento di chiudere il pesante portone le rivolsi un ultimo sguardo: scorsi un mesto sorriso sulle sue labbra, prima che sparisse dietro l'anta di legno.
Sapevamo entrambe che non avevamo bisogno di spiegare nulla e che le parole giuste erano rimaste lì, impresse su quel foglio sottile, nella profondità della carta, in uno spazio mai immaginato prima, dove anche il cuore può lasciare tracce.
Margherita Tirelli